Le prime evidenze di stretta connessione tra densità abitativa, salute e igiene pubblica risalgono al XIX secolo. Emblematica la mappa del colera di John Snow, un medico che nel 1854 fece luce sulle morti di colera nel quartiere di Soho a Londra, colpita dalla terza epidemia dal 1831. Il processo di industrializzazione aveva trasformato Londra in un centro sovraffollato, peggiorando così una situazione igienico-sanitaria già carente. Snow riuscì a mettere in correlazione la malattia con l’acqua contaminata distribuita da una pompa all’angolo di Broad Street. La pompa fu disattivata, togliendo la maniglia, e l’epidemia si fermò. Individuata la fonte, il contagio fu arrestato. L’emergenza COVID-19 è diversa, perché il virus si diffonde per via aerea, ma richiede comunque elevati standard igienico-sanitari per prevenire o arginarne il contagio. Si è intervenuti sulla densità abitativa: è stato necessario chiudere le città.

Siamo stati tutti invitati a rifugiarci nelle nostre abitazioni, anche se l’istinto iniziale è stato quello di fuggire verso zone rurali meno popolate, per questo ritenute più salubri e incontaminate. Eppure il virus ha raggiunto anche zone periferiche, interconnesse per vari motivi ai grandi centri urbani.

L’evoluzione della città e il modello rurale

Mappa originale di John Snow del 1854 – in nero i casi di colera (Fonte: Wikipedia)

Un sistema socio-economico globalizzato, davvero interdipendente, può assicurare una spiccata resilienza in diversi modi. Si pensi alla connettività, capace di garantire continuità ai servizi dei settori colpiti da emergenze, anche in posti più disparati. Se un comparto industriale fallisse in una parte del mondo, il mercato collegato verrebbe approvvigionato dallo stesso comparto attivo in un’altra parte del pianeta. E’ anche vero che la connettività non è esente da controindicazioni, in quanto il singolo problema, se non arginato, può ripercuotersi sull’intera struttura e portarla  al collasso. Fragilità di sistema messa a nudo proprio dall’attuale pandemia. Perché la costruzione regga è necessario che le singole parti siano singolarmente stabili e resilienti prima che interconnesse.

Facendo un parallelismo fra il pianeta globalizzato e le città, queste ultime sono emerse come spazi ad alta vulnerabilità e ad alto rischio. Le nostre case si sono trasformate, isolate e disconnesse dal resto del sistema, nello spazio più importante nella nostra vita sociale, un centro di benessere e l’unico sicuro, anche se non del tutto autosufficiente o confortevole. Come riportato da numerosi ingegneri e architetti, per accrescere la qualità di vita nelle nostre abitazioni, due sono i principali fattori migliorativi su cui agire: la poli-funzionalità e la flessibilità degli spazi.

Per fare questo è necessaria una grande semplificazione al fine di adattarsi in modo più rapido possibile al cambiamento in corso. Questo vale non solo per la propria casa ma anche per le città. Nei paesi fortemente urbanizzati e ben integrati a livello globale, le grandi città dovranno ri-ruralizzare e rilocalizzare i propri modelli di insediamento e sussistenza, adottando nuove strategie e modelli di gestione e sviluppo, con un accento particolare alla salubrità dei luoghi. La ruralizzazione è in pratica il processo inverso della rapida urbanizzazione, un modo per mitigare la crisi e promuovere la sostenibilità sociale, economica e ambientale. In questo senso è un progresso e non una regressione. Dal punto di vista energetico-ambientale, nei centri rurali meno sono le risorse di energia disponibili più alti sono i prezzi. E il primo passo obbligatorio da compiere è stimolare il risparmio e l’uso più accurato dell’energia, ricorrendo a risorse alternative come le rinnovabili.
Dal punto di vista della pianificazione locale urbana, la minor densità favorisce la flessibilità e quindi le possibilità di riadattamento e riqualificazione in casi di emergenza.

Nell’era pre-globalizzata, la campagna conferiva un certo grado di difesa. Eva Kassens-Noor, professore di pianificazione urbana presso la Michigan State University, ha studiato la pandemia di influenza del 1918 con particolare riguardo al ruolo che la densità di popolazione svolge nelle pandemie. In un articolo del 2013 pubblicato sull’International Journal of Health Geographics, sottolineava come “in India una densità di popolazione di 175 persone per miglio quadrato serviva da soglia tra i tassi di mortalità più alti e più bassi per l’influenza. Le persone  in luoghi con una densità di popolazione al di sopra di questa soglia vivevano meglio fuori dalla città”.

Il modello rurale applicato alle città non è scontato come sembra e ha già avuto evidenze storiche. All’inizio del XIX secolo l’ingegnere Ildefons Cerdá elaborò un piano per l’espansione di Barcellona e lui stesso introdusse la sociologia nella pianificazione urbana studiando le condizioni di vita degli abitanti di Barcellona all’interno delle vecchie mura della città. Adottò un approccio classico di pianificazione urbana, il cosiddetto piano ipodamico, una griglia definita da blocchi quadrati, tra loro interconnessi da ampie strade e piazze, con enormi cortili all’interno, in grado da fornire luce e aria a tutte le case periferiche. Anche nel secolo successivo sono continuati i riferimenti alla questione della salute nelle proposte urbane. Ad esempio il piano Voisin di Parigi di Le Corbusier, fa riferimento esplicito a testi medici nella sua ideazione ed è caratterizzato da aree abitate con un appezzamento di terra privato. Furono un’idea di Le Corbusier  i nuovi condomini dotati di tetti sui quali la gente poteva allenarsi.

L’evoluzione della città e il modello rurale

1863 I blocchi di Cerdá – Barcellona- Wikipedia Commons

Situazioni come quella attuale fanno ripensare alle idee degli igienisti del XIX e XX secolo per motivi diversi. Secondo il concetto di ruralizzazione la case dovrebbero, idealmente, avere accesso a spazi verdi all’aperto, cortili ariosi e bel illuminati, terrazze o balconi. Le città dovrebbero avere anche piazze, ampi marciapiedi, strade per facilitare la mobilità all’interno di un blocco e tra quelli adiacenti. Oggi, rispetto ai tempi di Cerdà, le moderne reti di trasporto (i tram, i treni, gli aeroporti) hanno reso più vulnerabili anche le aree rurali o ruralizzate dove gli agenti patogeni tendono ad arrivare più rapidamente. Le città con grandi aeroporti hanno sicuramente importato più casi delle città prive e, naturalmente, il virus non è rimasto confinato alle sale aeroportuali o alle sole città con l’aerostazione.

Situazione che spiega perché il modello rurale continua a essere riproposto come modello alternativo da seguire, se accompagnato da un sistema di gestione ad hoc. Anche perché asseconda il nostro istinto di sopravvivenza. Basti pensare al XIV secolo, come raccontato da Boccaccio nel Decameron, quando un gruppo di giovani fiorentini si rinchiuse in una casa di campagna nella periferia collinare di Firenze, per sfuggire alla peste nera che imperversava in città. EnergyTeam